«Ho scovato la grotta segreta», «Ho parlato col vecchio nella capanna sul fiume», «Sono andato a ovest per cercare la spada magica.» Queste sono le frasi più ricorrenti che si scambiano i videogiocatori quando si confrontano, di persona e su internet, sul loro titolo preferito.
Forse, secondo Matteo Bittanti, questi resoconti, queste storie, valgono più della trama in sé del gioco. Come dargli torto? Visto che il fulcro dei videogiochi è il giocatore, è bene fornirgli un personaggio nel quale immedesimarsi, che sia insomma la sua “anima” digitale.
Ritornando alle origini del videogioco, grazie ad un accurato studio di Chris Kohler per il suo Power Up, vediamo perché certi giochi hanno fin da subito conquistato il cuore dei ragazzini.
Siamo nei primi anni ’80. Nelle sale giochi impazzano, tra gli altri, i cabinati di Breakout, Asteroids, Space Invaders e Pac-Man. Giochi a blocchi, giochi spaziali e un gioco di “caccia nei labirinti”.
E poi è arrivato Donkey Kong: qualcosa di incredibilmente nuovo, del genere che Miyamoto definiva “correre/saltare/arrampicarsi” . Diversamente da altri giochi come Breakout, in cui prima veniva sviluppata la meccanica di gioco e poi si abbozzava una storiella, giusto per dare un senso alle azioni e per stimolare la fantasia del giocatore, Donkey Kong è stato il primo esempio in cui il processo di design cominciava con una storia. Partendo quindi dall’aspetto dei personaggi fu possibile caratterizzarli senza il bisogno di tanti giri di parole e inserirli in una dinamica di azioni coinvolgente. Miyamoto sostiene di progettare giochi adatti per tutte le età, ma furono i più piccoli a rimanere incantati dai colori vibranti e dalla presentazione grafica di Donkey Kong, perché ricordava un cartone animato. Le musiche e le animazioni lo facevano sembrare proprio un programma televisivo, ma la differenza sostanziale era che questi personaggi si potevano anche controllare e non soltanto guardare. Donkey Kong quindi fu il primo gioco entusiasmante sia da giocare, per l’originalità delle meccaniche di gioco, sia da guardare, perché le animazioni dei personaggi erano talmente ben fatte che permettevano anche al pubblico “non giocante” di godersi quella semplice storia. Ormai l’obiettivo non era più una scalata al punteggio più alto, ma era vedere la conclusione della storia. Se ci pensiamo bene, però, sempre di scalata si tratta. Perché sulla falsa riga di King Kong, un gorilla rapisce la fidanzata di un carpentiere (che poi sarà rinominato Mario) e scala un grattacielo fino alla cima con la bionda tra le zampe. Sarà compito dell’ometto baffuto e un po’ sovrappeso evitare tutti gli ostacoli, arrampicarsi sulle travi dell’edificio in costruzione e raggiungere la sua bella.
I piccoletti spaccano!
C’è da notare come in tutti i titoli più popolari di Nintendo come Pounch-Out!, The Legend of Zelda e Super Mario Bros. avevano dei protagonisti piccoli e “insignificanti” che si battevano contro nemici più grandi e potenti di loro, riuscendo a sconfiggerli e talvolta addirittura salvando la donzella in pericolo. I bambini hanno sempre amato le storie dove i piccoli sconfiggono i giganti come nei racconti di Davide contro Golia, Jack e il Fagiolo Magico e nei film di Karate Kid e Mamma ho perso l’aereo. Le storie nei videogiochi però, dopo l’arrivo di Donkey Kong, hanno acquisito anche la dimensione del controllo. Una cosa ben accolta dal giovane pubblico, perché stando ad uno studio relativo alle Tartarughe Ninja, un ragazzino dichiarò che preferiva giocare con il videogioco perché “poteva muovere i personaggi” mentre nel cartone “poteva solo vederli”.
Silenzioso ed efficace
Spesso si sceglie di negare ad un protagonista il dono della parola per fare in modo che siano le azioni del giocatore a fornirgli un carattere, ovviamente nei limiti imposti dalla programmazione, e permettere così che siano le scelte compiute da chi lo guida a cambiare il corso degli eventi.
Da quando la tecnologia ha permesso la presenza di strisce di dialogo però, soprattutto nelle avventure, il protagonista “parla” con altri personaggi, ma ciò che appare su schermo è solo la risposta in seguito al contatto. Link, protagonista in The Legend of Zelda, è ancora più soggetto ad essere influenzato dal giocatore. Partendo come esempio da un altro personaggio, Samus Aran, protagonista di Metroid, non sappiamo nemmeno che voce abbia – anzi, inizialmente non si sapeva nemmeno che aspetto avesse, visto che si presentava sempre con una tuta spaziale – ma fin dall’introduzione del gioco sappiamo che è una cacciatrice di taglie, coraggiosa e letale.
Per Link, al contrario, all’inizio del gioco viene presentata la sua vita semplice, conosciamo gli abitanti del villaggio dove vive e svolgiamo, se lo desideriamo, semplici compiti. All’improvviso il suo piccolo mondo viene stravolto, trovandosi ogni volta, suo malgrado, immischiato in situazioni più grandi di lui. Il giocatore può scegliere se impegnarsi al massimo o se sfuggire a molte delle responsabilità dell’essere eroe. Si, perché proseguendo nel gioco si scopre che Link è il portatore di un frammento della Triforza, in particolare quello del Coraggio e che questa forza conduce sempre e comunque a congiungersi con gli altri due frammenti, posseduti da Zelda, la principessa da salvare che dà il nome alla serie e dal cattivo di turno (sempre lui) Ganon. Ma oltre a questo, imposto dalla storia, Link può benissimo aiutare tanto un pastore a radunare il suo gregge quanto divertirsi a stuzzicare galline e maiali.
Il bello del personaggio e della sua “impersonalità” o “personalità-imposta-dal-giocatore” è che resta una figura educativa. Aiutando un personaggio in difficoltà Link riceverà un premio, stuzzicando gli animali senza motivo essi si coalizzeranno dandogli una sonora lezione, impegnandosi con costanza nella ricerca dei frammenti di cuore riceverà vita extra ecc…
Inoltre negli episodi per Nintendo 64, Ocarina of Time e Majora’s Mask, il personaggio di Link assume una profondità tale che ci si affeziona, anche se alla fine è stato il giocatore stesso a sviluppare la storia. Durante lo svolgimento della trama, Link da ragazzino un po’ confuso e fuori luogo perché ‘diverso’ dagli altri abitanti del villaggio scopre a quale razza appartiene in realtà (qui si potrebbe aprire tutto un capitolo sul tema del razzismo, dell’emarginazione e della vera amicizia) e cresce, diventa adulto, diventa eroe, salva il mondo dalla minaccia di Ganon e terminato il compito ritorna bambino, indietro nel tempo, un ragazzino sconosciuto che ha salvato il mondo da una tragedia che deve ancora verificarsi.
Nel secondo capitolo si riparte dove Ocarina è terminato. Link bambino è in cerca di un’amica, molti indizi fanno pensare alla fatina che lo ha accompagnato nell’episodio precedente. Per la solita sfortuna si ritrova trasformato in un’altra creatura, alla ricerca della sua vera identità in una terra sconosciuta. Farà ritorno alla sua Hyrule soltanto dopo aver scongiurato la catastrofe imminente: una luna maledetta si abbatterà sulla città in tre giorni. Inizia così una lotta contro flusso del divenire, avanti e indietro nel tempo, risolvendo i problemi dei cittadini, conoscendoli, affezionandocisi, sconfiggendo la maledizione e alla fine… tornando al primo giorno. La tragedia non si sta abbattendo né mai si abbatterà, i problemi sono risolti ma i cittadini non hanno mai visto Link in vita loro, perché siamo di nuovo al punto di partenza. Un piccolo eroe, umile, coraggioso e sconosciuto. «Il mio nome è Nessuno» si potrebbe dire.
Poesia.
Gli eroi non sono più di moda
Questo è il tempo in cui si desidera cambiare. Ciascuno deve dare la propria opinione su tutto, su internet i forum pullulano di novelli oratori, con youtube chiunque può improvvisarsi regista e distribuire la propria opera, nel mondo virtuale le principesse non sono più in pericolo e i draghi non disturbano più i quieti villaggi.
Adesso bisogna imparare a difendersi da soli, perché il mondo è cambiato e non servono più eroi, bisogna cavarsela in qualche modo.
Questo è forse lo spunto che ha portato la rivista Wired a proporre un’impaginazione volutamente sballata e, probabilmente, ha portato Goichi Suda a proporre un gioco così sopra le righe, così diverso da quanto visto in precedenza che forse molti non si sono ancora accorti che il videogioco (in generale) è una cronaca sempre aggiornata sul presente e qualche volta sul futuro.
Faccia da scemo perso, interessato a nient’altro che anime giapponesi e wrestling professionale, Travis Touchdown (letteralmente tradotto in: Travis Tocca-fondo) è l’alter-ego digitale di No More Heroes.
Un gioco erroneamente messo a confronto con GTA, dal quale invece prende solo liberamente spunto, in cui il giovane scapestrato si ritrova iscritto in una gara tra assassini, cercando di scalare la classifica di dieci posizioni. Attento più alla sua immagine che alle sue azioni, anche se dimostra a modo suo un certo rispetto per i “colleghi”, scorrazza per Santa Destroy, cittadina fittizia filo-americana, carica di riferimenti alla tradizione giapponese a bordo di una moto futuristica, brandendo una spada laser ribattezzata beam katana – raggio katana anziché lightsaber – lama di luce.
Personalmente non mi identifico per niente in questo personaggio punk e trasgressivo, ma ciò non toglie che sia facile immedesimarsi in Travis e compiere esattamente le azioni che ha previsto Suda51.
Il gioco è stato criticato per la presenza di una buona dose di violenza, ma in pochi hanno sollevato la questione che tutte le azioni, le frasi e le situazioni, sono volutamente esagerate.
Piccoli grandi eroi.
In un piccolo grande mondo parallelo, carico di collegamenti al nostro, ma perfettamente capace di reggersi sulle proprie gambe, vivono dei pupazzetti di pezza dotati di grande carisma. Essi sono personalizzabili a piacimento. Si possono infatti vestire e truccare, per dare loro un aspetto rapper o elegante, farli diventare pittori o elettricisti, giocolieri, messicani, ballerine o addirittura fantasmi e dinosauri.
Esiste una storia di fondo in LittleBigPlanet, ma questa non è che il trampolino di lancio per spingersi nel più vasto mondo. Prima di tutto, la cosa che più entusiasma di questo titolo, è che il giocatore dispone degli stessi strumenti usati dagli sviluppatori, quindi può benissimo crearsi da solo i personaggi e i livelli di gioco, per poi utilizzarli e inviarli agli amici o pubblicarli su una bacheca mondiale dove chiunque può provarli e appropriarsene. La liberà creativa è il suo punto forte, perché chiunque abbia mai giocato ai videogiochi con minimo di interesse diverso dal misero “ammazzare il tempo” avrà provato, sotto sotto, il desiderio di crearsi qualcosa di proprio. Nascono così livelli originalissimi, del tutto fuori di testa, oppure altri ispirati dai livelli dei più famosi videogiochi, o ancora dalle scene di film e cartoni animati. Su quest’ultimo versante persino Disney e altre case di produzione si sono fatte coinvolgere, distribuendo per poche manciate di euro costumi, adesivi e ambientazioni per costruire i livelli secondo un immaginario che siamo abituati soltanto a vedere, ma che ora diventa possibile anche esplorare.
Semplice, ma non è certo roba da poco.