Rez fin da subito mette le cose in chiaro: «Io sono diverso, anzi, funziono al contrario rispetto agli altri giochi».
Fin dall’inizio si legge tra le righe, righe in grafica wireframe, una certa dose di trasgressione: «Io per sparare rilascio il grilletto anziché premerlo».
Negli anni in cui la rincorsa al realismo tridimensionale diventa una vera e propria regola di vita, Rez si presenta con una grafica a prima vista spoglia, ma ben presto ci si rende conto che le linee assumono un senso, quelle strane forme diventano segni e poi simboli che leggendoli con attenzione raccontano la nascita dell’umanità e la sua evoluzione.
Attenzione a questo punto. Rez non è una lezione di storia, ma è intrattenimento sinestetico.
Ma perché tutti i sensi devono stare all’erta?
Ogni azione all’interno del gioco contribuisce ad arricchire la colonna sonora, che assume via via sempre più importanza. Stesso discorso vale per la presentazione visiva, oltre all’avvertimento attraverso il tatto, grazie alla capacità di vibrazione del controller, dell’avvicinamento di sciami di nemici.
Mizuguchi non si vergogna nell’affermare che si è ispirato all’arte e alla filosofia di Kandinsky nel realizzare questo titolo così lontano dal “già visto”.
Un genere in gran voga (lo sparatutto), grazie al suo alto grado di coinvolgimento e semplicità di apprendimento delle regole, è il mezzo per portare il giocatore ad un altro livello, più alto naturalmente, che Callois avrebbe identificato nella famiglia della vertigine sensoriale più che in quella della competizione. Dò pienamente ragione a Callois perché davvero il giocatore si ritrova spiazzato al primo incontro con Rez.
Ogni riga di testo a schermo ricorda la grammatica informatica, e proseguendo nel gioco ci si rende conto che il nostro avatar (se così possiamo chiamarlo) è impegnato in un vero e proprio attacco ad un sistema informatico, superando firewall, sterminando virus e acquisendo upgrade. Non solo, ma la forma dell’avatar varierà in base a quanti upgrade vengono collezionati, acquisendo fattezze sempre più umane. In sostanza, evolvendosi. Al contrario, subendo un certo numero di danni la forma perderà i tratti umani, ritornando ad essere una composizione di linee, poi ancora mucchi di poligoni fino a giungere alla sua forma più semplice e meno evoluta: una sfera. Ancora un colpo e sarà game over.
Persino i nemici, dal loro nome e dai loro comportamenti contribuiscono ad unire tecnologia all’organicità. Partiamo da The EARTH, passando per The MARS, The VENUS, The URANUS fino a giungere a eden. Cosa si nota? Prima di tutto che si parte dal pianeta più conosciuto, allontanandosi verso quello più lontano del Sistema Solare per giungere infine ad un luogo fuori dal tempo e dallo spazio: eden (senza articolo e scritto in minuscolo).
Come ho già accennato, alcuni nemici, i boss di fine livello in particolare, presentano degli elementi insieme sia tecnologici che organici: The EARTH si presenta come una sfera con una sorta di tentacoli ai poli, sospeso in una lunghissima galleria che ricorda l’interno di un cavo – forse un cavo di trasmissione dati. Eliminandone, colpo dopo colpo, la corazza, ecco che si scopre la sua vera natura elettronica: quattro elementi simili a telecamere allineati intorno all’asse verticale sono il suo punto debole. Ma è pronto a vendere cara la pelle, perché i poligoni che componevano la corazza si riorganizzano, così da circondare il corpo con possenti tentacoli, per difendere il punto debole. Ecco quindi la continua booleana18 organico/elettronico/organico.
Alcuni piccoli elementi “di disturbo” che fanno da arma di difesa del secondo boss The MARS non sono altro che la replica esatta del batterio del virus, il corpo ricoperto da antennine che si muovono frenetiche. Stiamo frenando l’avanzata di un virus informatico, ma esso è rappresentato attraverso la forma del reale organismo da cui assume nome e comportamento.
Ma non sono soltanto i nemici ad assumere questo insieme di elementi elettronici e organici. Come è vero che l’avatar cambia forme secondo gli upgrade o i danni che subisce, e nonostante la sua apparenza sia sempre lontana dalla rappresentazione realistica (come tutto quello che appare nel gioco d’altronde), possiede anch’esso un particolare che lo rende vivo: come a tenere il tempo della colonna sonora pulsa in continuazione, simulando l’attività del cuore.
Il punto è che in Rez, il giocatore non si limita ad andare a ritmo ma crea di fatto la musica. Non è miracolo, ma programmazione. La pressione dei bottoni, spiega Mizuguchi19, è stata prevista in ogni sua combinazione sul continuum temporale, in modo tale che l’ambiente di interazione diventi praticamente una tela bianca per il giocatore, lo stesso spazio bianco che Mizuguchi sperava di usare come digital canvas (canvas: tela per dipingere) per le sue idee tramite le tecnologie informatiche. Di conseguenza, livelli diversi di utenza e resa musicale, magari al pari della riuscita nelle missioni, sono possibili.