Frequentando il Fediverso ho scoperto che alcuni utenti si sono lanciati in una sfida interessante, chiamata 100 Days to Offload. Non mi è mai piaciuto molto parlare di “sfida”. Se ci facciamo caso ormai in qualsiasi contesto c’è una sfida.
È vero, scrivere 100 articoli in un anno non è proprio una banalità e sicuramente a lungo andare, superato l’entusiasmo iniziale, occorrerà determinazione. Però perché deve essere tutto una competizione? La scrittura è un processo rilassato, possibilmente disinvolto, soprattutto quando si parla di se stessi e magari a se stessi.
Preferisco chiamarlo impegno o, ancora meglio, promessa. Una promessa di mantenere costanza e avere sempre qualcosa da dire, che da qualche tempo sta un pochino svanendo. Ok, è deciso, Promessa sia. Come quella che ho fatto tanti anni fa con gli Scout.
Ecco, forse è proprio questo il primo argomento che vorrei trattare: lo Scoutismo.
Purtroppo ho abbandonato il gruppo del mio paese proprio sul più bello, concludendo con il Reparto il percorso iniziato con i Lupetti a sette anni. Però quel lasso di tempo mi ha insegnato molto. A cavarmela da solo, innanzitutto. Una bella dose di manualità e capacità di risolvere i problemi. Convivialità e collaborazione col prossimo fuori dalla “tana” di casa.
Ho cominciato l’esperienza a sette anni anziché i canonici otto perché fin da piccolo vedevo mio papà, all’epoca capo scout, che preparava lo zaino e le attività da far svolgere ai ragazzi, mi aveva mostrato le tende e il campo base nel bosco, mi raccontava le avventure che viveva col gruppo mentre mi mostrava le foto: dall’esplorazione alle camminate in montagna fino alle opere di volontariato.
Un bel giorno gli ho detto che avrei voluto entrare anch’io negli Scout.
“Devi aspettare di aver compiuto otto anni” mi ha risposto, durante una festa che celebrava un qualche importante anniversario del gruppo del mio paese. “Ma se proprio ci tieni,” ha proseguito con sorriso sornione “il capogruppo è là. Se hai il coraggio di chiederglielo, magari ti fa entrare prima.”
Tempo cinque minuti, sono tornato da mio papà dicendogli che alla prossima riunione dei lupetti avrei partecipato anch’io.
Sorpreso, è andato anche lui dal capogruppo a chiedere spiegazioni.
Il capo mi ha promesso che avrei cominciato subito se, una volta visto come fosse l’ambiente, avrei portato degli amici con me. Avremmo cominciato tutti un anno prima del solito.
Detto, fatto. Non molto tempo dopo avevo trascinato con me cinque coetanei e la nostra avventura tra promesse, specialità, uscite e fazzolettoni colorati è cominciata.
Negli anni delle scuole elementari la mia bibbia è stata in realtà Il libro della giungla di Rudyard Kipling. Il gruppo del mio paese faceva parte dell’AGESCI, di base cattolica, ma fortunatamente non abbiamo mai avuto capi né sacerdoti (che di tanto in tanto ci seguivano nelle nostre uscite col loro bravo fazzolettone al collo e scarponi ai piedi) particolarmente insistenti dal punto di vista religioso. Immancabili le preghiere e le messe, ma queste ultime, animate alla maniera scautistica avevano sempre un sapore diverso dal solito. Per non parlare di tante canzoni, che talvolta sono vere e proprie preghiere, ma ricche di significati universali adatti a chiunque e dalla grande carica emotiva.
Era Il libro della giungla la mia bibbia, dicevo, perché le attività che svolgevamo nei lupetti erano animate proprio dai passaggi tratti da quel libro: una storia avventurosa, ricca di valori adatti alla crescita e responsabilizzazione. Soprattutto era popolata da personaggi carismatici. I capi stessi avevano una spilla identificativa sul loro fazzolettone e interpretavano uno di questi: c’era il capogruppo Akela, come il capobranco nel libro, poi la pantera nera Bagheera, l’orso Baloo e avanti così, un personaggio per ogni capo. Noi eravamo i lupetti, divisi in squadriglie. Ciascuna col proprio capo e vice-capo, naturalmente loro erano i “lupi anziani”, i bambini che avevano quasi ultimato il percorso dei lupi e tra uno o due anni sarebbero passati nel gruppo dei grandi, il reparto. Coordinare la propria squadriglia nelle attività ludiche, ma anche nella pulizia a turno della Tana (dove si svolgevano le riunioni), avviare la catena telefonica per avvisare tutti (non erano così diffusi cellulari e sms negli anni Novanta) era un piccolo ma significativo modo per responsabilizzare i ragazzi.
Per crescere e diventare “un bravo lupo” bisognava ottenere delle specialità. C’era l’imbarazzo della scelta: fotografia, abilità manuale, capacità attoriali, tecnologia, osservazione delle stelle, pronto soccorso. Ogni anno tutti i gruppi, da quelli di bambini a quelli dei ragazzi fino a quelli degli adulti, si riunivano per una mega-uscita dove venivano assegnati i riconoscimenti di queste abilità e avveniva il rito dei “Passaggi”, ovvero si concludeva ufficialmente l’anno e ne iniziava uno nuovo, con il passaggio a un gruppo di livello superiore quando si raggiungeva l’età giusta. Nuove avventure più interessanti, nuove amicizie, ma soprattutto nuove responsabilità.
Il momento più emozionante dei passaggi, però, è sempre quello della Promessa. Quando si comincia a partecipare alle attività di gruppo il novizio o la novizia indossano un fazzolettone bianco. Questo avviene per tutte le età. La carriera Scout può cominciare anche oltre l’età scolare. Solo con l’impegno, la partecipazione costante e, soprattutto, la recita della Promessa, si ottiene il tipico fazzolettone colorato che non solo identifica il gruppo di appartenenza, ma suggella la stessa promessa recitata poco prima. Il vero impegno sta nel mantenere quella promessa. Che il gruppo sia cattolico o meno, sono tre i punti fondamentali:
- Fare sempre del proprio meglio;
- Aiutare gli altri in ogni circostanza;
- Osservare la Legge scout.
Nel mio piccolo cerco ancora oggi di mantenere questa Promessa. Motivo per il quale, quando ho consegnato la mia Regola di vita nel periodo in cui facevo l’educatore in oratorio, mi sono ispirato proprio al fondatore dello scoutismo, Robert Baden Powell. In particolare ho fatto riferimento al suo Scouting for Boys, ovviamente contestualizzando tutto ai tempi attuali, per adattare il mio metodo di insegnamento. Spingendo il più possibile sull’esperienza, sull’esempio, sul mettersi in gioco. Fare senza aspettare chissà cosa. Disbigottandosi. Un altro grande maestro diceva, infatti, “Fare o non fare, non c’è provare”. Essere pronti a qualsiasi eventualità, che sia piacevole o catastrofica. Pronti soprattutto a servire, nel senso più ampio del termine: non in maniera servile, ma Servire a uno scopo, essere utili per qualcuno, aiutare dove possibile. Sarà anche per questo che mi piace tanto Doctor Who. Tra i monologhi più famosi del Dottore emergono queste parole: “Mai crudele o codardo. Non mollare mai. Non arrendersi mai. Odiare è sempre stupido, amare è sempre saggio. Cerca sempre di essere simpatico, ma non mancare mai di essere gentile! Ridi forte, corri veloce, sii gentile.” Un monito per se stesso quando sente che sta per cambiare, per rigenerarsi. Le parole dette dall’incarnazione del Dottore che ho preferito fin dal suo esordio, la dodicesima, quella interpretata da Peter Capaldi.
Negli anni successivi ai lupetti, nel reparto, parliamo di scuole medie/inizio scuole superiori, finalmente le uscite diventavano più lunghe. Ogni membro della squadriglia si caricava in spalla e sul portapacchi della bibicletta i pezzi della tenda che li avrebbe accolti. Parliamo di almeno trenta chili in totale, tra pali, picchetti, copertura e parte principale. A ciascuna squadriglia spettava la sua pulizia e manutenzione. Se si sfilacciava o si rompeva dovevamo ricucirla; la pena sarebbe stata di dormire al freddo con fastidiosi spifferi se non addirittura fradici perché l’umidità della notte (per non parlare di quella dei temporali) era spietata. L’esplorazione, le prime esperienze di volontariato, gli atelier lontani da casa diversi giorni per specializzarsi nella cura degli animali, nelle trasmissioni radio, nel pronto soccorso e molte altre discipline sono stati momenti fondamentali per la crescita sia in esperienza sia in autostima. Sono ancora grato alla cascina che ha ospitato me e altri due amici, insieme a molti altri di gruppi diversi, che ci hanno mostrato come tosare le pecore, come mungere le mucche e molti altri processi simili, con cura, attenzione e rispetto. Sono sì animali, ma anche esseri viventi con i propri bisogni e caratteri.
Potrei andare avanti due giorni a parlare di questo argomento, ma credo di avervi già tediati abbastanza.
Ho scelto di cogliere questa occasione della challenge per riabilitarmi (non è un refuso, ho usato proprio il termine che volevo) a scrivere mettendoci la testa e migliorare così anche il mio modo di approcciarmi agli articoli per le riviste con le quali collaboro. L’idea nasce da un’idea di Kev Quirk, un informatico inglese appassionatissimo di molti argomenti che ha realizzato il sito dedicato alla sfida 100daystooffload.com con una breve spiegazione, le semplici linee guida e la Sala d’onore con tutti i partecipanti che l’hanno portata a termine.
Qualcun altro vuole cimentarsi? Naturalmente è il benvenuto.
La richiesta primaria è scrivere in un blog personale, perciò se non ne avete uno potete aprirne uno facilmente e gratuitamente su noblogo.org fatemi sapere se vi mettete in pista anche voi!